Quando si parla di hotel infestati, la prima immagine che salta alla mente degli appassionati di cronaca nera e folklore urbano è quasi sempre quella del Cecil Hotel di Los Angeles. La storia dell’albergo, diventato tristemente celebre per un’impressionante sequenza di delitti, suicidi e sparizioni, ha ispirato libri, podcast, documentari Netflix e anche un videogioco: The Cecil: The Journey Begins, prima fatica di Genie Interactive.
The Cecil The Journey Begins, un incipit familiare
Il gioco si apre con John – il nostro avatar – prigioniero in una cella che puzza di muffa e disperazione. Non abbiamo ancora visto il Cecil Hotel, ma già ne avvertiamo l’ombra: sulle pareti, graffiti che citano sparizioni avvenute negli anni ’30, un tubo rotto che gocciola in sincrono con il battito cardiaco del protagonista, una voce dal corridoio che borbotta “Shh… dorme ancora”. L’evasione è semplice e veloce: recuperi uno sturalavandini, pompi due volte il water, appare un cesello, scalfisci un mattone, trovi un grimaldello, apri la porta.
Se state pensando “tutto qui?”, non siete i soli: gran parte della community ha ironizzato su come il carcere iniziale sembri più il tutorial di un punta e clicca che la prigione di un serial killer. La sensazione è che gli sviluppatori non volessero frustrarci nei primi cinque minuti di gameplay. In cambio, però, svanisce la drammaticità di un risveglio in catene.
Eppure, proprio quell’inizio frettoloso contiene il germe delle due anime del gioco: da un lato la vocazione escape room, fatta di oggetti con cui trafficare, e, dall’altro, la volontà di raccontare la leggenda nera del Cecil Hotel. La cella, infatti, non è nei sotterranei di un castello medievale qualunque: è nell’ala in disuso di un albergo la cui fama, basti pensare al caso reale di Elisa Lam, parla da sé. Il titolo non esibisce nomi reali, ma l’evocazione è costante.
L’arrivo al Cecil: l’hotel come personaggio
Una volta sbucati all’aperto (o meglio, nel cortile interno), si varca la porta girevole della hall. Qui The Cecil piazza il suo colpo migliore: l’architettura. Colonne in marmo venato, lampadari Art Déco che oscillano come se qualcuno di invisibile li spingesse, moquette scarlatta macchiata di ruggine (o forse sangue secco), ma soprattutto silenzio, rotto solo dal fruscio di un grammofono lontano. L’Unreal Engine 5 fa il suo dovere: riflessi, particellari e volumetrie di luce rendono credibile ogni granello di polvere che galleggia tra i raggi dei neon.
L’hotel non è solo scenario: è il vero antagonista. Ogni porta chiusa reclama una chiave, ogni corridoio sbarrato da tavole marce (che teoricamente potremmo spostare con un calcio) impone una deviazione, come se l’edificio volesse dettare il ritmo dell’indagine. Ed è qui che emergono limiti e virtù di The Cecil: la sua struttura è in verità estremamente lineare, ma la regia tenta costantemente di camuffare questa linearità con trucchetti scenografici. Funzionano? Dipende dall’occhio di ognuno di noi.

Puzzles: un passo avanti, due indietro
Chi arriva dalle serie Resident Evil o Silent Hill riconoscerà subito questo pattern: statue che ruotano per rivelare chiavi, orologi a cui impostare l’ora “maledetta”, vasi da sollevare finché non ne esce l’oggetto giusto. Le sfide non sono mai davvero complesse, ma, in compenso, il gioco evita intrighi assurdi (niente combinazioni di quindici gesti per aprire un cassetto).
Questo equilibrio produce una progressione scorrevole: raramente si resta bloccati più di cinque minuti. Il rovescio della medaglia è l’automatismo: gli hotspot brillano vistosamente, il cursore cambia forma appena si avvicina a qualcosa di utile, talvolta la telecamera “prende” il controllo e zooma su un elemento, dicendo implicitamente “clicca qui”. Capisco la volontà di non alienare i neofiti, ma avrei gradito un’opzione per disattivare gli aiuti visivi, lasciando l’onere e l’onore della scoperta ai giocatori.

Vale la pena elogiare due enigmi in particolare (senza fare troppi spoiler): il primo è quello dell’orologio, che va dipinto con un pennello e della vernice nera, un bel esempio di come il messaggio scritto nel gioco (“Time will tell”) si collega in modo intelligente a ciò che dobbiamo fare. Il secondo è l’enigma dei quadri nella galleria del terzo piano, che ci obbliga a leggere vari appunti trovati nelle stanze e ricostruire l’ordine corretto di una serie di omicidi.
Qui si intravede la mano di designer consapevoli di come si costruisce un puzzle ambientale capace di raccontare, non solo di “bloccare” una porta.
Il grande equivoco: “open world” o corridoio mascherato?
Nella prima ora si ha l’illusione di libertà: la mappa (recuperabile) mostra ala Est, ala Ovest, cortile, rooftop, perfino uno speakeasy nascosto. In realtà, finché la trama non lo permette, ogni area inattiva viene sigillata con ostacoli ridicoli: un vaso rotto, un mucchio di macerie alto come la caviglia, perfino un appendiabiti caduto trasversalmente.
È la classica “porta rossa” dei survival anni ’90, ma nel 2025 rischia di far sorridere amaramente: stride con la potenza grafica che fa sembrare tutto credibile, perché un oggetto così minuscolo ci impedisce di passare? Capisco la necessità di canalizzare il flusso narrativo, però forse sarebbe bastato un semplice catenaccio o – meglio ancora – il buon vecchio “bisogna trovare la carta magnetica di livello 2”.

Il risultato è che il Cecil sembra più grande di quanto non sia. Finita l’avventura (ci vogliono, cronometro alla mano, dalle tre alle quattro ore se non ci si arrovella su ogni documento), ci si accorge che i piani realmente esplorabili sono meno di una dozzina di stanze “utili”. Per alcuni potrebbe andare bene: brevità e ritmo ne guadagnano e comunque scontato non è male come gioco; per altri che cercano più coinvolgimento potrebbe essere una delusione. Io mi colloco nel mezzo: avrei voluto una manciata di side-room facoltative, magari con micro-storie di ospiti scomparsi, giusto per sfruttare la mitologia abbondante del luogo.
L’amore (dis)armato per i jumpscare
“John… la senti la voce dei muri?” Con questa frase sussurrata appare per la prima volta la figura in impermeabile nero e maschera cadaverica che funge da nemesi. Il design è derivativo (ricorda creature viste in Haunt Chaser o The Caretaker), ma l’ingresso in scena è efficace: taglio brusco, audio che satura, luci che si spengono a intermittenza.
Peccato che tutta la tensione si rovini con un’interazione troppo veloce e poco chiara: compare un conto alla rovescia di tre secondi con la scritta “Premi per chiudere la porta”.
Le sezioni action si contano sulle dita di una mano: due inseguimenti (entrambi risolvibili nascondendosi in uno sgabuzzino finché il killer si annoia) e tre scontri a fuoco con un vecchio revolver.

Qui The Cecil mostra la sua anima ibrida ma anche un certo imbarazzo ludico: i mostri “minori”, dall’aspetto quasi oscuro e alieno, ma animati con pochi frame, si muovono lenti, subiscono colpi da spugna e non rappresentano un vero rischio, vista l’abbondanza di munizioni.
Da un lato spezzano la routine investigativa; dall’altro paiono innesti tardivi per soddisfare chi teme l’horror “solo puzzle e documenti”.
Narrazione, testi e doppiaggio: luci soffuse e ombre marcate
Se c’è un campo in cui The Cecil si dimostra disomogeneo è la scrittura. Le descrizioni degli oggetti oscillano fra la schematicità da enciclopedia (“Pennello a setole di crine di cavallo, manico in legno di betulla, lunghezza 15 cm”) e lampi di prosa macabra (“Le setole grondano di un nero viscoso che odora di bitume e incubi”).
Gli appunti sparsi, lettere del personale, chiavi lasciate in custodia, coupon del bar del pianoterra, offrono sprazzi di world-building, ma raramente convergono in un quadro coerente. La storyline principale (salva tua moglie Sarah, scopri i segreti dell’hotel) procede dritta, mentre sottotrame come “le dieci vittime del 1938” o “il pittore impazzito del quarto piano” restano bozzetti, mai davvero integrate nel gameplay.

Il doppiaggio inglese merita un discorso a parte. Sia chiaro: per un indie è già miracoloso avere un cast e una direzione audio, tuttavia alcune performance suonano troppo teatrali. La voce dell’annunciatrice alla reception sembra quella di una ragazza giovane che prova a imitare uno stile vecchio, ma lo fa in modo troppo forzato e teatrale, con un tono esageratamente tremolante che risulta poco credibile.
John alterna momenti di credibile panico ad altri in cui recita con eccessiva enfasi (“Sarah! [pausa] Resisti, sto arrivando!”) proprio mentre raccoglie spensieratamente munizioni da terra.
Sound design: qui Genie merita un applauso
Se la voce recitante vacilla, tutto il resto dell’apparato audio è da manuale. Dal cigolio di una porta che si spalanca su cardini arrugginiti, al rumore secco del proiettile che impatta la scocca metallica di un carrello portavivande, ogni piccolo suono contribuisce alla sospensione dell’incredulità. L’uso dei riverberi è calibrato: nei corridoi stretti senti l’eco del tuo stesso respiro, mentre nel salone principale le note di un pianoforte smorzato si perdono nello spazio, restituendo senso di vastità.
La colonna sonora orchestrale, invece, sceglie la via della sottrazione: accompagna in sottofondo, emerge per pochi secondi nei climax e poi torna a eclissarsi. Non è memorabile, ma fa il suo mestiere, lasciando che siano gli effetti ambientali a dominare la scena.