L’autunno si avvicina, e come ogni anno la stagione videoludica si prepara a offrire al pubblico un caleidoscopio di esperienze, dai colossal tripla A destinati a monopolizzare le vetrine digitali, fino a quei titoli minori che, pur senza clamore, riescono spesso a sorprendere grazie a idee semplici ma ben realizzate. È proprio in questo secondo panorama che si inserisce God of Weapons, sviluppato da Archmage Games Studio e pubblicato da Ultimate Games, un roguelike d’azione con combattimenti automatici che, dietro un’apparente semplicità, nasconde un sistema di gioco più profondo e calibrato di quanto ci si potrebbe aspettare. Non lasciatevi ingannare dal suo nome altisonante: qui non si tratta di empietà o divinità, ma di puro istinto di sopravvivenza.

God of Weapons- Un titolo semplice e immediato
Chi si avvicina a God of Weapons aspettandosi un intreccio narrativo elaborato, costellato di personaggi complessi e dialoghi memorabili, potrebbe restare parzialmente deluso. Il gioco ci mette infatti nei panni di un guerriero senza nome che, spinto da un ultimo barlume di speranza, si avventura nella Torre di Zhor, un luogo avvolto da tenebre eterne dove si cela il potere per riportare la luce nel mondo ormai precipitato nel caos. L’umanità è disperata, le terre sono infestate da orde di creature mostruose, e solo un manipolo di eroi — o forse folli — osa affrontare l’ascesa.
La trama, tuttavia, è poco più di un pretesto per dare forma all’azione: un contorno narrativo fumoso e volutamente minimale, funzionale a giustificare la scalata della torre. L’interesse non risiede tanto nella storia, quanto nelle sfide che il giocatore dovrà superare, ogni piano rappresenta una nuova battaglia, una prova di resistenza e costruzione strategica più che un capitolo di un racconto.
Il cuore pulsante di God of Weapons è il suo gameplay, che unisce l’immediatezza del combattimento automatico alla complessità gestionale tipica dei roguelike. All’inizio di ogni run, il giocatore sceglie un eroe e un set di armi iniziali, anche se molte opzioni sono sbloccabili solo con il progredire delle partite. Ogni personaggio dovrebbe, in teoria, rappresentare uno stile di gioco diverso, ma la realtà è che alcuni risultano nettamente più efficaci di altri, rendendo la sperimentazione meno incisiva del previsto. Ciononostante, il roster è sorprendentemente ampio e diversificato, con sottoclassi e specializzazioni che aggiungono un buon grado di profondità alla costruzione delle build.

Roguelike e Inventario
Parallelamente, la gestione dell’inventario di God of Weapons si rivela un elemento chiave dell’esperienza. Le armi e gli oggetti trovano posto in una griglia che richiama direttamente la celebre valigetta di Resident Evil 4, costringendo il giocatore a un continuo bilanciamento tra potenza offensiva e spazi disponibili. Ogni arma, ogni talismano o potenziamento passivo richiede riflessione e pianificazione: più si sale di piano, più la disposizione ottimale dell’equipaggiamento diventa cruciale.
Dopo ogni livello di God of Weapons, l’oro raccolto dai nemici sconfitti può essere speso nel negozio intermedio, dove armi, abilità e bonus vengono offerti a prezzi spesso convenienti. e la possibilità di rilanciare la selezione con costi esigui riduce però la componente di casualità, permettendo di ottenere rapidamente build quasi perfette e minando un po’ la tensione che caratterizza i migliori roguelike.
Chi teme che l’assenza di attacchi manuali renda God of Weapons un titolo passivo si sbaglia: sebbene le armi attacchino in automatico, la mobilità del personaggio diventa l’unico vero strumento di sopravvivenza. L’arena di gioco si trasforma in un labirinto di movimento costante, dove schivare, correre e anticipare i flussi nemici è essenziale per evitare di essere travolti. La struttura isometrica dona una visione chiara del campo, e i combattimenti si svolgono in round brevi ma intensi, spesso della durata di un minuto, che si susseguono con ritmo crescente fino a culminare in sfide di resistenza sempre più serrate.

Ogni piano completato offre nuove opportunità di potenziamento: esperienza per migliorare l’inventario e oro per ampliare l’arsenale. Tuttavia, la facilità con cui si accumulano risorse nei primi livelli riduce la sensazione di rischio, trasformando alcune run in esercizi di routine. Solo alle difficoltà più alte il gioco rivela la sua vera anima punitiva, con nemici più aggressivi, risorse più scarse e la necessità di ragionare in termini di efficienza e sinergia.
Progredendo, si percepisce un costante senso di crescita, grazie a un sistema di sblocco di nuove armi, valute e miglioramenti permanenti che alimentano la voglia di tentare ancora una run. Tuttavia, nonostante la solidità del loop di gameplay, l’esperienza finisce per soffrire di una certa ripetitività, accentuata dalla scarsità di varietà ambientale e dal numero limitato di boss — appena due, una mancanza che si avverte pesantemente dopo qualche ora di gioco.
La mancanza di un vero tutorial, poi, rende l’avvio più ostico del necessario: molte meccaniche vengono lasciate all’intuizione del giocatore, che deve imparare per tentativi come gestire l’armeria o sfruttare al meglio gli oggetti. Se per i veterani del genere questo può rappresentare una sfida stimolante, per i neofiti rischia invece di tradursi in frustrazione.

Una veste non particolarmente brillante
Dal punto di vista visivo, God of Weapons non lascia il segno. Lo stile grafico, fortemente ispirato al cartoon low-poly, risulta funzionale ma poco originale: creature e ambienti appaiono privi di carisma, con texture essenziali e animazioni ridotte all’osso. Anche la direzione artistica si mantiene su binari sicuri, senza mai osare davvero, mentre l’atmosfera generale rimane anonima, lontana da quella tensione visiva che ci si aspetterebbe da un’ambientazione apocalittica.
Tecnicamente God of Weapons si difende, ma non brilla: il frame rate è incostante nei momenti più caotici, e i caricamenti si rivelano più lunghi del dovuto per uno standard di console come Xbox Series S. Si aggiungono piccoli bug e texture talvolta poco rifinite, segno di un’ottimizzazione migliorabile. Il comparto sonoro, invece, svolge onestamente il suo ruolo, con musiche di accompagnamento piacevoli ma dimenticabili e un discreto utilizzo degli effetti audio. Una nota di merito va al supporto linguistico completo, che include anche l’italiano, elemento non sempre scontato in produzioni indipendenti.