Il termine Soulslike è diventato una scorciatoia comoda, ma anche un limite. A dirlo non è un critico esterno, ma uno studio che ha deciso consapevolmente di muoversi dentro quel territorio provando a romperne i confini. Secondo Caelan Pollock, creative director di Aggro Crab, etichettare così tanti giochi ha finito per bloccare la creatività di molti sviluppatori.
Il problema non è Dark Souls. Il problema è cercare di rifarlo all’infinito.
“Il miglior Dark Souls esiste già”
Parlando con Game Informer, Pollock è stato diretto: chiamare i giochi Soulslike ha “tenuto molti sviluppatori intrappolati in un loop”, quello di ricreare Dark Souls. Un obiettivo che, secondo lui, non ha senso.
Il motivo è semplice: Dark Souls è già il miglior Dark Souls possibile. Non perché sia perfetto, ma proprio perché è profondamente imperfetto. Le sue asperità, le sue rigidità, le sue scelte controcorrente hanno contribuito a renderlo memorabile.
Cercare di replicare ogni singolo elemento di quell’esperienza, dal combattimento basato sulla stamina fino al ritmo punitivo, porta spesso a giochi che sembrano esercizi di stile più che opere con una propria identità.
Cos’è davvero un Soulslike?
Da anni la definizione di Soulslike è oggetto di discussione continua. Combattimento lento e pesante, nemici letali, boss basati su pattern, recupero delle risorse dopo la morte. Ma non esiste una regola scritta.
L’unico vero collante è l’associazione diretta con Dark Souls. Ed è proprio questo il nodo critico. Quando un genere nasce come imitazione diretta di un singolo titolo, rischia di fossilizzarsi.
Secondo Pollock, imitare ogni aspetto dell’esperienza originale non produce qualcosa di rilevante. Produce qualcosa di riconoscibile, ma raramente necessario.
Another Crab’s Treasure e l’idea di rompere lo schema
È in questo contesto che nasce Another Crab’s Treasure. Un gioco che prende alcune fondamenta del Soulslike, ma le reinterpreta in modo radicale.
Il protagonista non è un cavaliere maledetto o un prescelto senza nome, ma un granchio. Il mondo non è una landa dark fantasy, ma un regno marino devastato dall’inquinamento. Le armature non sono scudi e piastre, ma rifiuti di plastica riciclati come gusci.
Dietro l’estetica leggera c’è una scelta precisa: dimostrare che il genere può ospitare temi diversi, toni differenti e persino un messaggio ambientale, senza perdere profondità ludica.
Una scommessa sul pubblico
Aggro Crab era consapevole del rischio. Entrare in un territorio così codificato e stravolgerne l’immaginario poteva alienare una parte della community più conservatrice. Eppure, come racconta Pollock, il team ha fatto una scommessa: credere che i giocatori fossero pronti a qualcosa di diverso.
Non un Soulslike “meno serio”, ma un gioco che usa quelle meccaniche per dire altro. Un’esperienza che non chiede di essere paragonata costantemente a Dark Souls, ma di essere giudicata per quello che propone.
Il limite delle etichette
Il punto centrale del discorso non riguarda solo i Soulslike. Riguarda le etichette in generale. Quando un termine diventa troppo ingombrante, smette di descrivere e inizia a condizionare.
Per molti sviluppatori, l’obiettivo diventa “fare un Soulslike”, non “fare un buon gioco”. E questo sposta il focus dalla visione alla replica.
Another Crab’s Treasure nasce invece da un’idea opposta: usare un linguaggio conosciuto per raccontare qualcosa di nuovo, anche a costo di spiazzare.
Un genere che deve evolvere
FromSoftware, con Demon’s Souls prima e Dark Souls poi, ha creato involontariamente un sottogenere. Ma non lo ha mai trattato come una formula immutabile. Basta guardare l’evoluzione che porta a Elden Ring.
Il messaggio di Pollock è chiaro: se persino chi ha creato quel linguaggio continua a cambiarlo, perché gli altri dovrebbero limitarsi a copiarlo?
Il futuro dei Soulslike, se così vogliamo ancora chiamarli, passa dalla capacità di osare. Di uscire dal loop. Di accettare che Dark Souls non vada superato, ma lasciato alle spalle come punto di partenza.
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