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Notizie in VetrinaSonyPlayStation 5

PlayStation e la crisi riflessa nello State of Play

La conferenza ha mostrato qualcosa che già sapevamo sulla crisi della generazione di PlayStation

Marco Fanciuso 7 ore fa Commenta! 10
 

Questa generazione non è iniziata con il passo deciso e trionfale che molti si aspettavano, e lo sanno bene sia i videogiocatori di lunga data sia coloro che, più giovani, si sono trovati a vivere il presente videoludico confrontandolo inevitabilmente con ciò che era venuto prima. Possiamo discutere a lungo dei molteplici fattori che hanno contribuito a renderla una delle stagioni meno incisive della storia recente: difficoltà produttive, crisi interne, errori di valutazione, scelte commerciali e industriali discutibili, modelli economici mal interpretati e, non ultimo, un progressivo disallineamento fra le aspettative dei giocatori e le strategie delle aziende.

Contenuti
La deriva dei live service e le scelte che hanno cambiato una generazionePlayStation, Giochi..ma poca visioneTi potrebbe interessare

La mia età anagrafica non è tale da permettermi di guardare con nostalgia eccessiva a epoche lontane, eppure è sufficiente per ricordare i momenti d’oro di PlayStation 4 e, ancora prima, di PlayStation 3, epoche in cui ogni conferenza, ogni annuncio e ogni titolo di punta sembravano scandire un percorso chiaro e appassionante. Con la generazione attuale, invece, nonostante alcuni spiragli recenti rappresentati da giochi promettenti come Expedition 33, Hollow Knight: Silksong, Kingdom Come: Deliverance 2 e altre produzioni annunciate, la sensazione prevalente resta quella di una corsa faticosa e incerta, una marcia rallentata da troppe esitazioni.

E mentre si intravedono i primi rumori sull’arrivo di una nuova Xbox e, soprattutto, di una futura PlayStation 6, ci si accorge di come questo ciclo stia già avvicinandosi alla sua naturale conclusione senza aver inciso davvero, senza aver lasciato un segno profondo e condiviso. Non intendo entrare nel dettaglio di tutte le cause sistemiche che hanno portato a questa situazione, perché rischierei di dilungarmi all’infinito. Preferisco invece soffermarmi su un esempio recente e concreto: l’ultimo State of Play organizzato da Sony. Un evento che, nelle intenzioni, non voleva certo imporsi come un punto di svolta epocale o un manifesto di potenza, ma che avrebbe potuto – almeno sulla carta – restituire un minimo di fiducia, di speranza, di entusiasmo.

PlayStation e la crisi riflessa nello State of Play

Dopo anni di silenzi prolungati da parte di team interni, dopo cancellazioni di progetti, licenziamenti di personale qualificato, ridimensionamenti industriali e una serie di goffi tentativi di inseguire il modello dei live service, il pubblico attendeva un segnale chiaro. E invece ciò che si è visto è stato un insieme disordinato e poco coeso di annunci, privo di una vera narrazione, incapace di sorprendere o di lasciare impressa una direzione.

Per alcuni versi, la mediocrità di questa conferenza di PlayStation non ha neppure ferito più di tanto: ormai ci siamo abituati, la delusione è diventata un riflesso condizionato, qualcosa di previsto, di quasi scontato. Sony, che in passato ci aveva abituato a show memorabili, sembra essersi trasformata in una macchina che produce presentazioni senza cuore, prive di ritmo, dove anche i giochi più interessanti finiscono per sembrare spot messi in sequenza più per colmare vuoti che per comunicare visione.

La deriva dei live service e le scelte che hanno cambiato una generazione

La radice del problema affonda in una scelta precisa: l’ossessione per i live service. Sony, un tempo gigante dell’innovazione e casa dei team di sviluppo più talentuosi al mondo, ha deciso di deviare gran parte delle proprie risorse verso un modello tanto redditizio in teoria quanto rigido e rischioso nella pratica. Non parliamo di un semplice esperimento, ma di una vera e propria strategia industriale che ha segnato profondamente questa generazione.

I casi sono noti e numerosi: Naughty Dog costretta a concentrare risorse su The Last of Us Factions, progetto poi cancellato; Sony London impegnata in un live service fantasy ambientato a Londra, anch’esso naufragato; Twisted Metal trasformato in un titolo multiplayer online che non ha mai visto la luce; e ancora Concord, che si è rivelato un fallimento clamoroso già prima del suo lancio effettivo, bruciando credibilità e risorse. Sullo sfondo, restano titoli come Marathon e Fairgames, circondati da dubbi e da un’attesa che somiglia più alla speranza che al vero entusiasmo.

Concord


L’unico successo, Helldivers 2, è paradossalmente nato come un progetto secondario, quasi inatteso, che la stessa PlayStation stessa non sembrava credere potesse sfondare, salvo poi minarne la fortuna con decisioni strategiche contraddittorie, fino ad arrivare addirittura a pubblicarlo anche su Xbox, una mossa che ha sorpreso e che finalmente mostrato la casa giapponese di . Un colpo che, più che consolidare, ha finito per indebolire la percezione di esclusività e identità del marchio.


Il risultato complessivo di questa deriva è stato un indebolimento della macchina produttiva di PlayStation , un rallentamento tangibile dovuto a investimenti mal calibrati, una dispersione delle energie creative e, soprattutto, la perdita della fiducia da parte dei giocatori, che vedono gli studi più amati impegnati in progetti poco ispirati, spesso cancellati o trasformati. Ridurre tutto a questo solo fattore sarebbe superficiale, certo, perché ci sono anche dinamiche economiche, industriali e di mercato più ampie, ma è innegabile che la rincorsa al live service sia stata la zavorra principale di questa generazione.

sony playstation

PlayStation, Giochi..ma poca visione


Lo stesso State of Play ha offerto qualche timido lampo di speranza, anche se non sufficiente a invertire la tendenza generale. Soros di Housemarque, spiritualmente legato a Returnal ( quasi da sembrare un secondo capitolo), ha mostrato il talento di uno studio che, più di altri, ha saputo sfruttare le potenzialità di PlayStation 5, regalando un titolo che molti ancora considerano la migliore esclusiva della generazione di PlayStation. Anche Wolverine, dopo quattro anni di sviluppo complicato e varie difficoltà, ha dato un assaggio di potenzialità, con un tono più maturo, combattimenti cruenti e una direzione artistica differente da quella di Spider-Man 2.


Tuttavia, il resto dello State of Play è sembrato un collage di presentazioni inserite per fare minutaggio, senza una vera costruzione narrativa, senza un ritmo, senza quella capacità di sorprendere che in passato costituiva la forza di PlayStation. Le conferenze, per quanto sempre legate a dinamiche pubblicitarie, erano comunque spettacoli pensati per costruire attesa e stupore; ora sono diventate sequenze fredde, inerti, prive di anima.


PlayStation 5 continua a vendere molto bene e resta un successo commerciale indiscutibile. Ma il problema è che, mentre i bilanci sorridono, i giocatori restano disillusi: il cuore non batte più come un tempo. Certo, non mancano le speranze legate a nuove IP in arrivo, al lavoro di Santa Monica e Naughty Dog, e a progetti che potrebbero ancora cambiare la percezione generale. Ma il segno lasciato fino a oggi è quello di una generazione che ha vinto sul piano economico e perso su quello emotivo.

PlayStation 5

Quello che osserviamo non riguarda solo Sony: l’intera industria videoludica sembra vivere una crisi di identità, fatta di scelte sbagliate, progetti interrotti, modelli economici aggressivi e un rapporto complicato con il proprio pubblico. Tuttavia, il caso PlayStation resta emblematico perché più evidente, più simbolico, più pesante visto che è leader attualmente di mercato.


La generazione PlayStation 5, che doveva rappresentare un apice, si è trasformata in una parabola di caduta, un tentativo di toccare il sole come Icaro e finito con le ali bruciate. Eppure, dentro questa crisi si è affermato un fenomeno inatteso e positivo: la rinascita dei titoli più piccoli, delle produzioni indipendenti, dei progetti meno imponenti che hanno sorpreso e conquistato là dove i grandi blockbuster hanno fallito. È quasi un ribaltamento mitologico, come Davide contro Golia: non i colossi a salvare la generazione, ma i giochi più piccoli e creativi, capaci di emozionare con certa autenticità.


Forse è proprio da lì che nasceranno le basi per un futuro più luminoso, meno legato a modelli rigidi e più vicino all’essenza del videogioco come esperienza di scoperta, sorpresa e passione. Il futuro sarà scritto dai grandi nomi e dalle nuove console, certo, ma anche – e forse soprattutto – da chi saprà restituire ai giocatori ciò che oggi manca: il piacere di lasciarsi sorprendere.E come sempre, lo scopriremo vivendo. O, meglio ancora, giocando.

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