Nell’affollato panorama indie contemporaneo, saturo di metroidvania, roguelite, souls-like e clonazioni più o meno riuscite di successi tripla A, scovare una perla narrativa capace di togliere il fiato in appena tre ore è un piccolo miracolo. Nobody Nowhere, esordio dello sviluppatore solista cinese Tag:hadal approdato su PC il 17 febbraio 2025, è esattamente questo: un’esperienza breve ma densissima, che ricorda l’effetto di certi racconti di Philip K. Dick quando li leggi tutti d’un fiato alle tre di notte, con la pioggia che batte sul vetro e una vaga sensazione di vertigine allo stomaco.
La formula? Una visual novel “travestita” da side-scroller in pixel-art, arricchita da piccole sezioni ludiche e da una regia dal piglio anime, dichiaratamente debitore a opere come Ghost in the Shell, Blade Runner e, più di recente, NieR Replicant, suggestioni che non si limitano all’estetica, ma permeano l’intero sottotesto filosofico del gioco.
Nel silenzio dei replicanti
Il mondo di Nobody Nowhere è l’anno 2079: una megalopoli verticale, trafitta da tubi al neon che sputano fumo azzurro, dove “Replicanti” sintetici diventano facili bersagli di corporazioni disposte a tutto pur di piegare i limiti dell’immortalità. Il protagonista, o meglio, il primo dei protagonisti, apre gli occhi in un laboratorio in fiamme proprio mentre l’organizzazione clandestina White Dove tenta un salvataggio impossibile. Quel lampo iniziale di terrore, accompagnato da un crescendo elettronico che accarezza l’orecchio, mette subito in chiaro due cose: la posta in gioco è la coscienza, e nessuno è al sicuro.
Da lì in avanti la trama si dipana attraverso cambi di prospettiva sapientemente collocati: scivoliamo nei panni di un’agente White Dove consumata dai sensi di colpa, in quelli di un medico che baratta etica e carriera, e persino in un drone sorvegliante che registra i nostri passi come se fossero macchie d’inchiostro su uno spartito.
Nonostante la brevità di Nobody Nowhere (poco più di tre ore di gioco per chi non ama soffermarsi su ogni dettaglio, fino a cinque se si esplora ogni pixel), il ritmo è serrato ma mai frenetico: ognuno dei quattordici capitoli termina su un cliffhanger che esorta a proseguire, ma lascia sempre il tempo di inspirare l’odore digitale dell’ambiente prima di buttarsi nella scena successiva.

Gameplay: piccole frizioni per rompere la linea orizzontale
Il cuore dell’esperienza di Nobody Nowhere rimane la narrazione testuale: nessun doppiaggio, solo balloon e riquadri di testo traducibili tramite un comodo registro, perfetto per ripescare linee di dialogo sfuggite. A intervalli regolari, però, Nobody Nowhere interrompe la lettura con minigiochi contestuali:
- Puzzle hacking – reticoli a nodi dove bisogna far scorrere pacchetti dati evitando firewall mobili;
- QTE minimalisti – un paio di pressioni ben marcate durante sequenze d’inseguimento;
- Stealth bidimensionale – brevi corridoi sorvegliati da coni visivi, con IA più simbolica che punitiva.
Chi mastica avventure grafiche riconoscerà il tentativo (riuscito) di variare il ritmo senza mai tradire l’anima da romanzo visivo. Le “deviazioni ludiche” durano il giusto, non annoiano e, soprattutto, non bloccano la progressione: sbagliare un QTE, per esempio, comporta una manciata di secondi di ritardo e un piccolo graffio sulla barra vitale, mai un game over frustrante.

Pixel-art un po’ Cyberpunk
Visivamente il gioco abbraccia una pixel-art a 32 colori estremamente pulita. I fondali alternano cromie acide, viola e turchesi si sfidano a colpi di neon, a interni plumbei, con monitor a fosfori verdi che lampeggiano come lucciole stanche. Alcuni scorci, specie nelle sezioni in esterno sotto la pioggia, paiono dipinti impressionisti fatti di quadratini, mentre le illustrazioni statiche che incorniciano i dialoghi (ritratti dei personaggi, splash screen narrativi) mostrano un tratto anime nitidissimo, a dimostrazione della doppia anima/ibrida del progetto.
Il parallax scrolling dona profondità agli strati urbani: insegne olografiche sfuocate in primo piano scivolano contro panorami di grattacieli svettanti, generando un senso di vertigine che ricorda certe camere di Akira. È un mondo disegnato, sì, ma anche credibile, perché non rinuncia a piccole animazioni ambientali: il fumo che esce dalle bocche di lupo, le pozzanghere che tremano al passaggio di un tram monorotaia, le scritte pubblicitarie che lampeggiano con glitch casuali.
Synth che pulsano come cuori artificiali
In assenza di voice-acting, il sound design è il vero narratore occulto. La OST, disponibile come DLC a parte su Steam, mescola synthwave notturno a inserti orchestrali minimalisti, con un tema principale che echeggia la malinconia di Blade Runner 2049 e un finale corale da brividi. È difficile non farsi trasportare dal basso pulsante che accompagna le sequenze di fuga, o dal pianoforte distorto che sottolinea l’amara ironia dell’ultima rivelazione.
Alla musica si affiancano rumori ambientali curatissimi: il corpo del protagonista che atterra su un tetto produce un tonfo sordo e metallico; la pioggia picchietta con intensità variabile, modulata in base alla distanza, e i flussi d’aria nei condotti sotterranei generano un riverbero sottile ma percettibile in cuffia. Tutti dettagli che, insieme, suppliscono con eleganza alla mancanza di voci, rendendo ogni silenzio un momento di tensione deliberata.
Identità, sacrificio e il peso del ricordo
Nobody Nowhere rielabora molti tòpoi del genere cyberpunk: lo scontro fra progresso tecnologico e morale, la ricerca di un sé “autentico” sotto strati di firmware e memoria sintetica, la mercificazione dell’anima. Fin qui niente di totalmente inedito; eppure, la scrittura di Tag:hadal spicca per la sobrietà con cui tratteggia il conflitto. Non troverete lunghi monologhi esistenziali alla Kojima: le domande emergono nei non-detti, talvolta in un semplice sguardo incrociato fra sprite, o in una fotografia spiegazzata che fa da memento al passato.
Particolarmente riuscita è la riflessione su colpa e delega: la White Dove vorrebbe proteggere i replicanti, ma il fallimento iniziale insinua un dubbio etico sottile, se liberare sia davvero altruismo o solo un modo di placare il proprio senso di impotenza. Parallelamente, il protagonista affronta il paradosso di chi nasce con ricordi impiantati: può davvero appropriarsene? O ne rimane in eterno custode?

La conclusione, che ovviamente non sveleremo, gioca con aspettative e cliché del genere, regalando un finale dolceamaro e, soprattutto, coerente con la tesi di fondo: ogni identità, artificiale o organica, è un equilibrio fragile di scelte, rinunce e legami.
Quasi come un film
La struttura lineare, inframmezzata da pochi bivi di dialogo che modificano dettagli di una scena ma non l’esito generale, limita la rigiocabilità. Tuttavia una seconda run, magari a distanza di mesi, permette di cogliere presagi e foreshadowing sfuggiti al primo passaggio.
Va anche detto che il prezzo di lancio (9,99 $ / 8,19 €, spesso scontato del 30 % su Steam) lo rende più vicino a un biglietto cinematografico che a un gioco tradizionale, con la differenza che qui mantieni il titolo in libreria per sempre.
Da NieR a Space for the Unbound
Cosa da non poco è una connessione spirituale di Nobody Nowhere con la saga di NieR. Le somiglianze esistono, è vero (replicanti, fiori come leitmotiv, minigame di hacking), ma l’opera di Tag:hadal adotta un taglio molto più contenuto e quasi “slice-of-life” nel tratto emotivo, ricordando, per struttura, A Space for the Unbound o The Last Time I Saw You. Ciò che accomuna questi titoli è il focus sulla cura del dettaglio intimo: un gesto gentile, un ricordo condiviso, un sacrificio taciuto.
Per chi ama la tensione narrativa di un anime di Mamoru Oshii, condita con la malinconia di un JRPG firmato Yoko Taro, Nobody Nowhere è un’esperienza che si gusta come un pasto gourmet completo. Merito anche di una scrittura che non indulge in fan-service, ma dosa i riferimenti in modo raffinato: un poster logoro di un vecchio film sci-fi, un nome di file che evoca un romanzo cult, eccetera eccetera.
Leggero come una pioggia primaverile
Tecnicamente Nobody Nowhere gira senza intoppi anche su portatili datati: basta una CPU dual-core, 2 GB di RAM e una GPU integrata per renderizzare i 60 fps fissi. Nessun bug rilevante è venuto fuori nelle nostre ore di gioco, salva una sporadica desincronizzazione dell’audio risolta con un riavvio. Il supporto a controller XInput è nativo, ma il titolo si gioca comodamente pure su tastiera grazie alla mappatura tasti personalizzabile.