Questo articolo fa parte di una trilogia, leggi la prima parte se non l’hai fatto
Il successo planetario di Metal Gear Solid aveva cambiato tutto. Quello che per Kojima doveva essere un punto d’arrivo diventò invece l’inizio di una saga destinata a segnare la storia del videogioco. Il pubblico chiedeva un seguito, Konami pure. E così, nonostante i suoi progetti si stessero spostando altrove, Hideo tornò ancora una volta a vestire i panni del regista.
Il risultato fu Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, uscito nel 2001 su PlayStation 2. Più che un semplice sequel, fu un salto concettuale. Kojima decise di spiazzare tutti: il protagonista, per gran parte del gioco, non era più Solid Snake ma Raiden, un giovane soldato che rifletteva lo sguardo ingenuo del giocatore stesso. La scelta fu controversa, ma coerente con l’idea di fondo: la saga non era una serie di storie isolate, era una riflessione continua su guerra, identità, controllo dell’informazione e società digitale.

Accanto ai temi filosofici, Kojima perfezionò ulteriormente il suo linguaggio autoriale: taglio registico, scene d’intermezzo curate nei minimi dettagli, dialoghi densi e un ritmo narrativo che oscillava tra cinema e romanzo. Ancora una volta, il videogioco non era più solo gioco: era racconto.
La maturità della saga: Snake Eater e Guns of the Patriots
Nel 2004 arrivò Metal Gear Solid 3: Snake Eater, un prequel ambientato negli anni ’60 in piena Guerra Fredda. Kojima abbandonò il contesto tecnologico delle precedenti opere per raccontare una storia più intima e umana, fatta di lealtà, sacrificio e tradimento. Il rapporto tra Naked Snake e The Boss resta uno dei momenti narrativi più alti mai raggiunti dal medium. E ancora una volta, Kojima sfruttò i limiti della tecnologia come trampolino: la sopravvivenza nella giungla, la caccia per nutrirsi, il camuffamento dinamico. Tutto contribuiva a rafforzare il coinvolgimento narrativo.
Il 2008 vide poi l’arrivo di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots su PlayStation 3. Qui Kojima decise di tirare le fila di decenni di intrecci narrativi con una chiusura epica, carica di riflessioni sulla vecchiaia, sull’eredità e sul peso delle proprie azioni. Il gioco fu un successo commerciale e critico, e segnò il culmine di una visione durata più di vent’anni.
Il divorzio con Konami e la nascita di un nuovo inizio
Nonostante il successo, il rapporto tra Kojima e Konami iniziò a incrinarsi. Divergenze creative e visioni strategiche portarono a un progressivo deterioramento della collaborazione. Il punto di rottura arrivò durante lo sviluppo di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, pubblicato nel 2015. Il gioco, ambizioso e rivoluzionario per struttura e libertà d’azione, portava in sé l’eco delle tensioni interne. Pur acclamato dalla critica, molti fan percepirono che qualcosa mancava: la storia appariva incompleta, vittima delle difficoltà produttive e delle frizioni con l’azienda.
Quello fu l’ultimo capitolo della saga sotto il marchio Konami. Kojima lasciò la compagnia che lo aveva lanciato, portando con sé non solo il suo talento, ma un’eredità enorme. In molti pensarono che la sua carriera potesse chiudersi lì. Si sbagliavano.
Kojima Productions e il futuro del videogioco

Nel 2015 Hideo Kojima fondò il suo nuovo studio indipendente, Kojima Productions, con un obiettivo chiaro: continuare a innovare senza compromessi. Il suo primo progetto fu Death Stranding, pubblicato nel 2019. Un gioco anomalo, divisivo, in cui il concetto stesso di “azione” veniva ribaltato. Il cuore dell’esperienza era la connessione: connessione tra luoghi, tra persone, tra giocatori. Un tema profondamente contemporaneo, raccontato attraverso meccaniche mai viste prima e una narrazione che mescolava filosofia, metafore e riflessioni esistenziali.
Ancora una volta, Kojima aveva ampliato i confini del medium, dimostrando che un videogioco poteva parlare di isolamento, solitudine e umanità con la stessa intensità di un romanzo o di un film.
Un autore oltre il tempo

Oggi Hideo Kojima non è solo un game designer. È considerato uno dei più importanti autori del nostro tempo, un artista capace di fondere cinema, letteratura e interattività in un’unica esperienza. La sua influenza va ben oltre i confini del videogioco: registi, scrittori e creativi di ogni settore lo citano come fonte d’ispirazione. Ogni suo progetto è atteso come un evento culturale.
E se c’è una costante nella sua carriera, è questa: la capacità di sorprendere. Di cambiare direzione quando tutti pensano di aver capito dove stia andando. Di trasformare le limitazioni in punti di forza. Di raccontare storie che non si limitano a essere giocate, ma che restano dentro, come quelle dei migliori film o dei migliori libri.
Perché Hideo Kojima non ha mai visto i videogiochi come semplici giochi. Li ha sempre trattati come opere, e grazie a lui oggi il videogioco è riconosciuto per quello che può essere: un linguaggio artistico maturo, capace di emozionare, far pensare e cambiare il modo in cui guardiamo il mondo.
Segui icrewplay.com anche su Instagram per continuare questo viaggio nella storia dei videogiochi e dei creatori che li hanno resi ciò che sono oggi.
Questo articolo fa parte di una trilogia, leggi la prima parte se non l’hai fatto