Non serve essere appassionato, né aver giocato l’ultimo capitolo: basta osservare il meccanismo. Leggende Pokemon Z-A è diventato un nastro trasportatore che macina nostalgia e sputacchia prodotti “nuovi” con la stessa pigrizia con cui si ristampa una t-shirt. Il copione è sempre lo stesso: ritocchini minimi, compromessi tecnici imbarazzanti, narrativa “va bene così” giustificata dal solito mantra “tanto lo comprano lo stesso”. E lo comprano davvero. Ma questo non assolve nessuno: semmai incrimina un ciclo vizioso dove il fatturato sostituisce la qualità.
La furbata sta nel capitale emotivo, vendono il ricordo d’infanzia, promettendo e poi consegnando un compitino dalla regia scolastica e dal mondo spoglio, con due trovate cosmetiche spacciate per rivoluzione. «Il gameplay conta più della grafica», direte. Certo! Ma senza investimenti veri, strumenti moderni, team formati, tempi umani e una direzione artistica con coraggio, anche il gameplay resta un criceto che corre nella ruota. La tecnica non è un vezzo estetico, ma l’ossatura del gioco, e se la casa è fatta di cartone, qualunque idea, anche la migliore, finisce per crollare.

Leggende Pokemon Z-A, una presa in giro
Qui non c’entrano né i limiti dell’hardware né il solito scudo del “rispetto per i lavoratori”. Rispettare chi lavora vuol dire dargli strumenti, tempo, guida e ambizione, non costringerlo in pipeline vecchie per sfornare l’ennesimo sequel fatto d’inerzia.
Le grandi aziende del settore, piene di soldi e potere, non sono vittime: scelgono la mediocrità perché conviene. Ma lo fanno con tutta calma, sapendo che una parte del pubblico reagirà come sempre: preorder, day-one, doppia edizione “da collezione”, recensioni indulgenti.

La scusa del “è per bambini” serve solo a giustificare prodotti mediocri, quando proprio i più piccoli meriterebbero cura, doppiaggio e mondi vivi. Invece Pokémon perpetua i suoi difetti e li vende come tradizione. Ma la colpa non è solo di chi lo fa: è di chi lo compra. Ogni acquisto acritico è carburante per uno sfruttamento calcolato, dove si taglia sulla qualità perché l’Excel dice che basta il logo a vendere. E intorno, media e fan tappano i buchi gratis, tenendo in vita una macchina che non ha più bisogno di migliorare.
Siamo arrivati al limite. Anche Pokémon, il marchio che sembrava intoccabile, oggi è la prova vivente che l’inerzia ha un prezzo. Il pubblico del 2025 non vive più di nostalgia e mascotte: pretende mondi vivi, cura, direzione, impegno. Gli standard si sono alzati ovunque, nel cinema, nelle serie, nei videogiochi indipendenti, e continuare a spacciare un prodotto stanco per “magia” è ormai un insulto all’intelligenza collettiva.

La via d’uscita non passa da una petizione ma dall’unico linguaggio che un colosso possa capire: il silenzio del portafoglio. Niente preordini, niente fede cieca, niente upgrade di facciata. Bisogna aspettare, verificare, e soprattutto premiare chi osa davvero innovare, anche fuori dal recinto del brand. Finché continuiamo a pagare per la minestra riscaldata, l’industria continuerà a servirci piatti tiepidi spacciandoli per ricette nuove.
Pokémon oggi non è solo un gioco: è il simbolo di un sistema che sfrutta l’affetto del pubblico per vendere routine al prezzo della passione. Ma ogni ciclo ha un punto di saturazione e questo, finalmente, potrebbe essere il loro.