Dopo anni di meme (Silksong when?), di silenzi impenetrabili e di trailer centellinati, il 4 settembre 2025 Hollow Knight: Silksong è finalmente arrivato. Il tempismo della notizia, con trailer e data svelati a fine agosto, ha chiuso un ciclo di attesa che era diventato un fenomeno culturale, al punto da mandare in affanno diversi store digitali al day-one. Ma la domanda rimane: perché così tanto tempo?
La risposta emerge chiarissima dall’unica vera intervista concessa da Team Cherry in occasione dell’annuncio: non c’è stato un singolo “incidente” o un dramma produttivo da additare, bensì una somma di scelte creative e organizzative coerenti con la loro natura di studio piccolissimo e ostinatamente artigianale. Hanno deciso di rimanere piccoli, di non delegare, di non farsi dettare scadenze e, soprattutto, di far crescere l’idea finché il gioco non rispecchiasse esattamente la loro visione.
Questo approccio ha richiesto anni, sì, ma ha preservato l’identità del progetto e il piacere di costruirlo. Il contesto intorno (hype alle stelle, voci incontrollate, promesse altrui su finestre di uscita) ha reso l’attesa più rumorosa; il lavoro, però, è andato avanti con una costanza quasi monastica. E quando alla fine è arrivato, Silksong ha travolto le piattaforme e incredibilmente anche il mondo della pirateria, della serie “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Un team minuscolo e una filosofia da bottega
Team Cherry è minuscolo per scelta. Ari Gibson e William Pellen hanno spiegato che preferiscono non “incasinare la formula” con gerarchie e management: lavorare in pochi è più divertente e produttivo, anche se costa mesi in più. Il loro processo è gioioso e immediato: un’idea diventa contenuto giocabile quasi subito. Ma se ti diverti, fai fatica a fermarti: ogni sketch finisce nel gioco, racconta Gibson. Così hanno evitato crunch e burnout, accettando però un calendario lungo. Per loro, il
“piacere di fare” ha contato più della velocità.
Da DLC a seguito-mondo: lo scope che si allargaTirando le fila
Silksong nasceva come espansione su Hornet, poi è diventato un seguito completo. Fin qui normale. Meno normale è stato lo sviluppo: da un gioco più piccolo si è passati a un mondo vasto, con quest, hub multipli e level design ripensato per il moveset più agile della protagonista. Ogni aggiunta ha generato nuove aree, sistemi e animazioni, moltiplicando il lavoro. Il risultato è un gioco più elaborato dell’originale, cresciuto non per problemi ma perché l’asticella qualitativa si è alzata a ogni passo.
Il silenzio (quasi) totale
Dal 2019 gli aggiornamenti si sono diradati: Team Cherry ha scelto di non “disturbare la gente tanto per” e di proteggere la scoperta dagli spoiler. Questa scelta ha cozzato con promesse esterne, come lo showcase Xbox 2022, ma gli sviluppatori non hanno rincorso chiarimenti continui. Coerente anche la decisione di non inviare codici stampa in anticipo: tutti i giocatori hanno scoperto il gioco insieme. Un approccio
“anti-industria” che ha alimentato meme e hype, ma preservato l’ignoto come parte del design.

Il perfezionismo che moltiplica il lavoro
Obiettivo dichiarato: un mondo più reattivo, nemici e boss più articolati, feedback più credibili. Questo ha significato asset disegnati a mano, animazioni extra, sistemi intrecciati e un’enorme coerenza trasversale. Ogni miglioria locale richiedeva verifiche ovunque, dilatando soprattutto la rifinitura e il bug-hunting. Negli ultimi anni il lavoro è stato invisibile dall’esterno, ma cruciale per rendere ogni dettaglio naturale al controller.
Libertà economica, zero scadenze
Con oltre 15 milioni di copie vendute, Hollow Knight ha dato al team libertà economica. Silksong è stato finanziato senza pressioni di publisher o milestone: niente organico forzato, niente pre-ordini invasivi, nessuna tabella PR rigida. Scelte controintuitive che hanno mantenuto autonomia e serenità creativa, al costo di speculazioni e ansia della fanbase.

Tirando le fila
Alla fine, il perché dei sette anni si riduce a una parola scomoda e bellissima: scelta. Scelta di rimanere piccoli, scelta di far crescere l’idea finché serviva, scelta di proteggere il mistero, scelta di rifinire all’infinito finché sistema, estetica e mano artigiana non coincidessero.
Non è stata una gestazione facile in senso operativo, nessuna produzione lo è, ma è stata serena nel senso che conta per un progetto d’autore: set di priorità chiare, nessun compromesso per mancanza di fondi, nessuna rincorsa di promesse altrui. E nel frattempo, l’attesa ha tenuto accesa la fiamma: community iper-viva, wishlist da record, rinnovata fame per l’originale.
Il day-one, travolgente per gli store, è stato la prova empirica che quell’inerzia non si era spenta. Se cercavate un giallo, non c’è: c’è un laboratorio che ha preferito l’olio di gomito agli annunci, e un’opera che – proprio perché nata senza scorciatoie – è arrivata più tardi ma (probabilmente) più intera. In questo senso, Silksong non ha impiegato sette anni: ha usato sette anni bene.